Qualche giorno fa, in Spagna, più precisamente a Malaga, un Giudice, in una causa di separazione, ha condannato un marito a corrispondere all’ex consorte, in regime di separazione dei beni, per il lavoro domestico svolto durante i 25 anni di vita matrimoniale, oltre 200.000€, cifra che tiene conto tanto della florida carriera professionale dell’uomo, tanto della normativa spagnola che prevede espressamente che i lavori casalinghi devono essere computati come contributo alle spese, dando diritto ad una indennità che il giudice deve quantificare, in caso di mancato accordo tra i coniugi, nel momento in cui si estingue il regime di separazione.

 

Ci siamo chiesti, quindi, che impatto potesse avere una simile pronuncia nel diritto italiano e se potesse configurarsi come una sorta di riscatto per tutte quelle ex mogli che si sono dedicate al lavoro casalingo, sacrificando, per il benessere della famiglia e dei figli, le proprie ambizioni professionali.

 

Ebbene, in Italia non è prevista alcuna indennità specifica per i lavori di casa, limitandosi l’art. 143 c.c. a statuire un obbligo reciproco di contribuzione ai bisogni della famiglia. Al contempo la legge sul divorzio dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente all’altro un assegno, quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.

Ma cosa sono queste ragioni oggettive?

Secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente l’assegno divorzile ha una funzione perequativa-compensativa e chi lo richiede deve fornire in giudizio la prova di aver effettivamente sacrificato le proprie aspettative personali e professionali, in nome della dedizione esclusiva all’attività familiare.

La scelta di non lavorare della donna assume, insomma, un rilievo giuridicamente pregnante nel momento in cui ad esempio la donna prova in giudizio che il sacrificio della propria carriera sia stato il frutto di una scelta condivisa di opportunità e di carriera del marito, oppure nel momento in cui la stessa fornisca la prova di aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali (rinuncia ad un incarico, cancellazione da albi professionali), ma non assume rilievo alcuno quando la donna sceglie deliberatamente di non lavorare, anche se avrebbe potuto farlo.

 

Al di là, poi, delle diverse quantificazioni operate in ordine alla misura dell’assegno divorzile, la rinuncia alle prospettive professionali non ha un valore specifico nella legislazione italiana né tantomeno viene riconosciuto alcun valore economicamente rilevante al lavoro domestico-casalingo.

 

La stessa riforma Cartabia, nel ridisegnare gli istituti della separazione e del divorzio, prevede la possibilità che l’assegno divorzile sia riconosciuto in una unica soluzione, in sede di negoziazione assistita, sulla base di un accordo tra le parti, ma non conferisce alcuna importanza specifica al lavoro svolto entro le mura domestiche da uno dei due coniugi.

Il che, forse, imporrebbe a chi si dedica al lavoro domestico, anche a fronte di un soggetto che ben potrebbe diventare ex, di precostituirsi delle prove perché se è vero che l’amore trionfa, permetteteci di dire che “Facto, probantur, iura deducuntur” (I fatti si provano, il diritto si deduce).